Vittima delle apparenze, nel senso che di primo acchito sarebbe facile definirla
astrattista - poiché indubbiamente non è la figurazione il suo obiettivo -;
tuttavia, di fatto, e in una realtà più profonda, la pittura di Sandra Bertocco
è una figlia dell’informale, o ancor meglio dell’informe. Per giunta di un informe
particolare, e cioè quello che, se ne abbia o non se ne abbia consapevolezza,
trova la propria ragion d’essere nel gesto e, certo, anche nel colore, però in
un colore dalle radici lontane, per l’esattezza quello che ha in Wolfgang Goethe,
e nella sua alternativa teoria del colore, il vero padre nobile. In definitiva la
Bertocco è un artista romantico, un pittore che si affida in modo esclusivo al
proprio io e alla propria soggettività, e che da lì fa scaturire e scorrere
l’opera in una dimensione che vive di una luce in stretta relazione con l’ombra.
Naturalmente non l’ombra teatrale e/o caravaggesca, bensì l’ombra che condiziona
la luce nel suo manifestarsi, e di conseguenza i colori che nascono da tale
rapporto sono squillanti come vagiti, eppure moderati e sorvegliati dal nero e
dalla presenza di un’oscurità.
Nel raccontarsi Sandra Bertocco fa riferimento alla musica, e sarebbe impossibile
darle torto, e non solo perché se esiste una forma d’arte riferibile
all’astrazione, questa è in assoluto proprio la musica, ma perché medesimo è
lo sgorgare e il fluire nel percetto dello spettatore/osservatore. Infatti,
sia la musica che la pittura di Sandra son fatte della materia di cui son fatti
i sogni, ed entrambe non sono né descrittive né tantomeno mimetiche, così
come entrambe non devono fornire giustificazioni al loro esistere.
Entrambe, non a caso, sono evocative (e in tal senso basterebbero alcuni titoli
delle opere qui in mostra: Pellestrina, Sottobosco, Luogo,
Corteccia, Una ferita aperta, Spigolo vivo), e quando
si materializzano in forma visibile (sia essa tela o spartito) lo fanno grazie
a un gesto carico di componenti sensorial esistenziali, il quale impegna però
il corpo fisico.